I battenti di Verbicaro

di Antonaglia Luca

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Nella moderna società tecnologica abbiamo attuato un processo simbolico di rimozione della morte dalle nostre vite: la morte è diventata un tabù da cui rifugiarsi.

Jean Baudrillard, filosofo e sociologo contemporaneo, sosteneva che una delle tragedie del nostro tempo è che la morte non è più concepita come una parte essenziale della vita ma come un incidente di percorso, creando così un corto circuito simbolico: eliminando la morte dalle nostre vite, in cambio della sicurezza, abbiamo reso la nostra stessa società morta.

Tutta la nostra cultura tecnica crea un ambiente artificiale di morte.

Allo stesso tempo Fakir Musafar sosteneva che il rituale corporeo con la sua costrizione, con la sua forza magica fatta di dolore e mistero, ci avvicina alla morte e questo è necessario per riscoprire l’essenza della vita stessa: è passando attraverso la morte, la sua concezione e le sue sensazioni, che è possibile una rinascita.

Un salto nel buio che ci porta in una dimensione metafisica in cui non esistono più sicurezze sociali ma dove è possibile riconnettersi con l’essenza reale del proprio se. Riscoprire rituali corporei dimenticati può, dunque, allargare la nostra visione delle cose.

Anche in Italia, nonostante siano stati osteggiati dal potere ecclesiale e in seguito da una visione scientista, esistono ancora rituali tradizionali legati alle costrizioni corporali: un esempio rappresentativo può essere la processione dei Battenti di Verbicaro, un piccolo paese del cosentino calabrese. Le prime testimonianze di questi rituali, connesse alle pratiche devozionali medioevali dei flagellanti, come quello dei Vattienti di Nocera Torinese, risalgono al 1618.

Parliamo di un evento devozionale che approderà anche a forme di resistenza comunitaria. Se lo scopo principale di questo rituale era quello di far rivivere la Passione del Cristo, la lunga agonia che ha preceduto la crocifissione, nel corso del secolo precedente, sembra aver assunto un ulteriore significato. Infatti, nel primo decennio del 900, la comunità di Verbicaro fu colpita da una grave epidemia della quale furono ritenute responsabili le autorità cittadine. L’esercito regio represse con la forza i moti di ribellione che ne erano susseguiti, causando decine di morti; per reazione, parte della comunità attuò, attraverso l’autoflagellazione derivata da questi riti, forme di protesta pacifica. Tra il sacro e il profano questo rituale è ancora vissuto con grande passione dagli abitanti della piccola comunità.

Il rito si svolge nel periodo della Pasqua, nella notte del Giovedi Santo, dopo la messa celebrata presso la Chiesa della Madonna delle Grazie. I battenti, in seguito ad una cena nel “catujo” (cantina nel centro storico), per simulare l’ultima cena di Gesù con gli apostoli, vestiti con indumenti di colore rosso, eseguono esercizi fisici per accelerare la circolazione sanguinea.

Inizia così la processione dove avviene la battitura sulle cosce attraverso il “cardillo”: un pezzo di sughero di forma conica sulla cui superficie sono inseriti acuminati frammenti di vetro. A piedi nudi, lungo quello che sarà il percorso della via crucis, che percorreranno per tre volte, soffermandosi sul sagrato della Chiesa Madre, della Chiesa di San Giuseppe e altri luoghi sacri, inondano col loro sangue attraverso la battitura, in segno di rispetto e devozione, pianerottoli e parti della strada. Durante la processione, saltuariamente, amici e parenti gettano del vino sulle loro ferite: l’atmosfera cruente si riempie così di un odore acre e pungente. In seguito, un’impronta della loro mano insanguinata viene lasciata sulla parete dove è presente un murales raffigurante la Vergine Maria.

Il rito si conclude, mettendo fine alle sofferenze dei battenti, con l’immersione nella Fontana Vecchia dove l’acqua fredda si fonde con il loro sangue. La riscoperta dei rituali corporei tradizionali è un modo per valorizzare le tradizioni popolari delle piccole comunità e riscoprire quel senso di solidarietà comunitaria che vi soggiace. Inoltre, è un mezzo per fare ulteriore chiarezza, da un punto di vista socio-antropologico, sull’innata esigenza dell’essere umano di modificare o “ferire” il proprio corpo.

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